Bookcoaching: Il bar delle grandi speranze

0
… la vita è una serie di storie d’amore,
e ognuna è una reazione a una storia precedente.
 
Nella mia storia, sin da quando ero bambina, ho sempre anelato ad avere un luogo di appartenenza e riconoscimento, oltre alla casa nella quale trovo protezione dalle intemperie, meteorologiche ed emotive. Ho sempre sentito che la casa è il mio posto, ma ho anche cercato al di fuori un luogo fisico in cui poter entrare e, senza appuntamento, trovare qualcuno a cui accompagnarmi, per una chiacchierata leggera o un dialogo partecipato.
Da piccola sì questo luogo esisteva ed era il giardino condominiale, perennemente popolato di ragazzini starnazzanti, con le pause obbligate di orari scolastici, di pasti e studio, controra estiva e notte. Era bello, naturale, non avrei potuto immaginare la mia vita senza. All’improvviso, poi, è arrivato il momento in cui siamo cresciuti e senza accorgercene abbiamo iniziato a non frequentare più il cortile che, da luogo di gioco e compagnia, col tempo si è trasformato in spazio abbandonato a sé stesso. So che fa parte della crescita, ma ora che ci rifletto penso a quanto siamo stati sciocchini ad averlo permesso: abbiamo perso l’occasione non solo di condividere, ma anche di mantenere i contatti, perdendoci di vista fino a non riconoscerci più. Che peccato!
Lo ripeterò finché avrò fiato in corpo: sono una persona fortunata per la mia ricca vita affettiva e sociale, impreziosita dagli Amici (quelli veri!) e da compagnie di varie gradazioni, eppure a quattordici anni mi sentivo più vulnerabile che mai nel caos … E il mondo fuori dal mio corpo sembrava altrettanto volatile e capriccioso. Ma di una cosa ero certa: il cervello era mio e lo sarebbe sempre stato … scegliendo i libri, i libri giusti, e leggendoli lentamente, attentamente, avrei potuto tenere sotto controllo almeno quello. Così è stato, credo di essermi educata alla ricerca del mio equilibrio interno, a mio agio con me stessa; tuttavia non mi è mai bastato, sempre bisognosa di confrontarmi con la vita reale.
 
Seppure io non sia un tipo da bar (qualunque cosa questo voglia significare), quando ho letto Il bar delle grandi speranze di J. R. Moehringer ho immediatamente amato il luogo protagonista della storia, perché mi sono immedesimata nell’ideale del proprietario: Steve voleva creare un rifugio in cui i suoi vicini, amici e compagni di bevute… potessero trovare un senso di sicurezza e di compensazione … Il rifugio ideale per tutte le tempeste della vita … un bar che accogliesse le molteplici personalità … tutti dovevano sentirsi speciali, e nessuno doveva spiccare … nessuno sarebbe stato trattato con sufficienza.
E mi sono rammaricata di non averlo mai trovato! Poi stamane, mentre mi accingevo a scrivere questo post, ho avuto uno scambio di pensieri profondi con un’amica geograficamente lontana e, nel frattempo, un’altra mi ha telefonato: era in difficoltà e ciò di cui aveva bisogno era solo compagnia, comprensione, abbracci… presenza. Siamo state dunque insieme. Non occorreva altro.
Ho pensato a tutte le persone che partecipano della mia vita e ci vogliono rimanere, pure quando è faticoso e anche se a volte fa male, e allora ho capito che io il mio “bar delle grandi speranze” l’ho costruito negli anni con le mie relazioni: all’occorrenza uno costituisce il “bar” dell’altro. E vi riconosco ciò che leggo nel libro:
 
Il bar non esaudiva desideri, soddisfaceva bisogni, e in quel momento io … avevo bisogno … di un certo tipo di amico … Una lezione, un gesto, una storia, una filosofia, un atteggiamento, ho preso qualcosa da ogni uomo del bar di Steve. Sono stato un perfetto “ladro di identità” … Il bar mi ha inculcato la tendenza a trasformare ogni persona che mi capitava davanti in un mentore, o in un personaggio, ed è merito – e colpa – del bar se sono diventato un riflesso, o una rifrazione, di ognuno di loro … la vita di un uomo è fatta di montagne e caverne: montagne che dobbiamo scalare, caverne in cui ci rifugiamo quando non siamo capaci di affrontare le montagne. Per me il bar è stato entrambe le cose.
 
E ora lo so anche io che le imperfezioni sono parte della vita, che nel bar si può entrare e si può uscire, liberi di scegliere i modelli da seguire, si possono mantenere quelli positivi e lasciare andare quelli che non lo sono più. Le delusioni capitano e pure io ora ho scoperto quanto imparato da J. R.:
essere disilluso significava essere autonomo.
Nessuno da adorare, nessuno da imitare.
 
 
(J. R. Moehringer, Il bar delle grandi speranze, Piemme – Pickwick, Milano 2014)
 
 
– Post pubblicato nel blog di Accademia della Felicità il 29 maggio 2018

Lascia un commento

Invia il commento
Please enter your name here