Un libro mi disse: “Accabadora” di Michela Murgia (post di Antonella Mansi)

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La rubrica Un libro mi disse prende spunto dal libro di Tiziano Terzani Un indovino mi disse: qui l’autore racconta di come la profezia di un indovino, da lui accolta in bilico tra gioco e cauta credulità, lo invitò a fare delle scelte che lo aprirono a nuove esperienze, permettendogli di scoprire un suo mondo tutto interiore. Ho scorto un parallelo con il fatto che spesso leggere un libro, un romanzo, un racconto, potrebbe essere l’occasione per conoscere meglio se stessi e dare una svolta non programmata alla propria vita.

Per la rubrica Un libro mi disse di seguito potete leggere le rispettose considerazioni di Antonella Mansi scaturite dal romanzo di Michela Murgia, Accabadora.
Buona lettura! 

Eutanasia, la “dolce morte” desiderata da chi sopporta una lunga e dolorosa agonia, è un argomento sul quale è difficile trovare pareri concordi. Quel che è certo è che aiutare un moribondo a porre fine alle sue sofferenze è considerato, per la legge italiana, un omicidio a tutti gli effetti.
Ma è possibile che in passato, in alcune aree isolate dove le cure mediche rappresentavano soltanto un miraggio, ci sia stata una forma di amore familiare che sfociava con l’eutanasia? A quanto pare sì, e questa è la storia sarda dell’Accabadora.
Perché ho deciso di parlarvi di questo libro ?
Le tematiche civili e sociali mi hanno da sempre affascinata, interessata, coinvolta; ritengo siano da sempre il termometro delle spinte al cambiamento di una società.
L’eutanasia, il fine vita sollecita le nostre convinzioni etiche, morali, religiose: difficile restare indifferenti.
Basta ricordare i polveroni seguiti alla vicenda di Eluana Englaro e Dj Fabo.
Nel libro mi ha colpito come invece la questione venga affrontata con semplicità, la figura dell’accabadora ricopre un ruolo sociale riconosciuto e stimato.
Il contributo di questa lettura è stato di indurmi a fare delle ricerche, degli approfondimenti.
Ho deciso di cambiare il mio modo di leggere, di non chiudere il libro e passare al successivo.
Indagare sull’autore, sul periodo storico, sugli elementi emersi che ci hanno colpito è un modo di trattenere la bellezza, la magia che ci ha regalato un testo particolarmente amato.
Si tratta di un libro piccolo (163 pag.) ma intenso sia per le tematiche affrontate (adozione, eutanasia) che per lo stile di scrittura. 
Mi ha colpito molto la modalità con cui vengono affrontati questi temi e posso affermare con certezza che si tratta di uno di quei libri che leggi e ti lasciano il segno, ti ricordi, ti fanno riflettere e rileggi volentieri. 
Le protagoniste sono due donne: Bonaria Urrai (l’accabadora, colei che dà la morte) e Maria che incontriamo bambina e lasciamo donna.
Fillus de anima sono i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un ‘altra, e sono i bambini che vengono dati in adozione, come Maria.
 
Bonaria Urrai (l’accabadora) incontra la piccola Maria Listru, quarta figlia della vedova Anna Listru, mentre compie un’azione di cui Maria sembra non poter fare a meno: rubare anche oggetti che non le servono davvero.
Vivono  insieme come mamma e figlia, ma questa unione ha il valore importante delle cose che si sono scelte.
Bonaria intuisce che in passato Maria era considerata un incidente fastidioso e con altre tre sorelle gli spazi e gli oggetti erano frutto di faticosa contesa.
Bonaria dà a Maria il tempo di introdursi nel nuovo ambiente e ruolo.
Maria non conosce l’attività di accabadora, è convinta che Bonaria faccia la sarta.
In paese tutti conoscono l’attività vera di Bonaria.
Maria lo scoprirà prima da sola, senza la mediazione di Bonaria che potrebbe aiutarla a capire, e questo la porterà ad un rifiuto, a una fuga in continente.
Ovviamente parliamo di due figure femminili dai tratti forti e intensi.
Bonaria, una figura ricca di fascino, appare molto determinata e precisa nello svolgere il suo ruolo: non accetta tutti i casi che le vengono proposti e forse solo una volta (e su questo mi piacerebbe avere un confronto con chi leggerà il libro) si fa guidare dal sentimento.
Anche il suo ruolo di madre lo gestisce con intelligenza e pazienza.
Maria è una bambina sveglia, intelligente, ama studiare (all’epoca non si considerava necessario farlo per una ragazza). 
In un ‘intervista fatta a Michela Murgia lei afferma a proposito dei ruoli uomo/donna nella società sarda di quel tempo:
 Il libro rispecchia  il contesto sociale sardo degli anni ‘50, dove se l’uomo era depositario del “fatto”, la donna lo era del “senso”. In una società rurale come quella che racconto, il maschio aveva pochissimi modelli di virilità rispettata a cui adeguarsi, tutti pratici, mentre la donna poteva travalicare i compiti di madre e di sposa per intepretare altri ruoli sociali, tanto pratici quanto sciamanici, vissuti con la naturalezza di un retaggio, e socialmente riconosciuti. Che non fossero comunque entrambi vittime di un destino non posso dirlo, ma di certo alla donna venivano riconosciuti più strumenti per gestirselo.
 
Dei due temi trattati quello che è più vicino alle mie corde è quello dell’eutanasia.
Sembra che l’accabadora in alcuni casi fosse anche levatrice.
Quindi un rapporto molto naturale con i cicli della vita.
È la famiglia a chiamarla e dopo un rituale preciso (vengono tolti al malato tutti gli oggetti che lo possono trattenere) lei agisce.
Sembra però che questa figura fosse legittimata agli occhi della comunità, il suo non è il gesto di un’assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi.
Perché è lei l’ultima madre.
Concludo con un accenno dovuto allo stile inconfondibile di Michela Murgia. 
Il suo modo di descrivere situazioni e sentimenti io lo trovo sublime, affascinante.
Un linguaggio semplice, potente, efficace.
 
Come gli occhi della civetta, ci sono pensieri che non sopportano la luce piena. Non possono nascere che di notte, dove la loro funzione è la stessa della luna, necessaria a smuovere maree di senso in qualche invisibile altrove dell’anima. Di quei pensieri Bonaria Urrai ne aveva diversi, e aveva imparato nel tempo a prendersene cura, scegliendo con pazienza in quali notti farseli sorgere dentro. 
 
 
 

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