Un libro mi disse: “La musica sveglia il tempo” di Daniel Barenboim (post di Annarita Garganese)

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La serie Un libro mi disse prende spunto dal libro di Tiziano Terzani Un indovino mi disse: qui l’autore racconta di come la profezia di un indovino, da lui accolta in bilico tra gioco e cauta credulità, lo invitò a fare delle scelte che lo aprirono a nuove esperienze, permettendogli di scoprire un suo mondo tutto interiore. Ho scorto un parallelo con il fatto che spesso leggere un libro, un romanzo, un racconto, potrebbe essere l’occasione per conoscere meglio se stessi e dare una svolta non programmata alla propria vita.

Per la serie Un libro mi disse di seguito troverete le riflessioni di Annarita Garganese sulla musica, suscitate dalla lettura di La musica sveglia il tempo di Daniel Barenboim.
Buona lettura!

In musica, come nella vita, possiamo parlare davvero solo delle nostre reazioni e delle nostre percezioni. E se provo a parlare della musica, è perché l’impossibile mi ha sempre attratto più del difficile. Non fosse altro perché tentare l’impossibile è per definizione, un’avventura, e mi comunica una sensazione di energia che trovo assai attraente. Inoltre c’è il vantaggio che il fallimento non solo appare tollerabile, ma è addirittura previsto. Quindi tenterò l’impossibile e cercherò di individuare alcuni collegamenti fra l’inesprimibile contenuto della musica e l’inesprimibile contenuto della vita.
[Ci sono libri che spalancano porte che altrimenti rimarrebbero chiuse].
Ho cominciato a legger prima le note che le lettere. Avevo 4 anni.
E per quel che io ricordi, mi adattai facilmente.
Fu l’anno che indossai i miei primi occhiali.
Ma stupore accadde, quando, in un preciso istante, vivido, riconobbi i suoni e le loro sfumature sulla tastiera del pianoforte.
Aria sonora con cui il mio corpicino vibrò – per simpatia – mentre le mie mani, nuove e coraggiose, si avventuravano in un mondo immaginifico e sconosciuto, di emozioni e storie vive.
Seguivo con gli occhi l’ascendere e il discendere di palline colorate, con code, punti e combinazioni sempre nuove. Ascoltavo decantare storie e personaggi, ruoli ed emozioni. E poi le sfumature: il piano, il pianissimo e poi il crescendo. Scherzando, rubando, cantabile. E chiudere gli occhi e lasciarsi andare.
Sempre, con fiducia.
Quel mondo si intersecava con il mondo reale, ma ciò che ricordo era un tutt’uno, e il confine era talmente sottile da non percepirne differenza.
Forse non vi era delimitazione.
La musica – rispetto le parole – dispone di un mondo ben più vasto di associazioni proprio in virtù della sua natura ambivalente: essa è nel mondo ma è anche fuori dal mondo.
Tant’è che dalla fantasia, parte delle belle storie musicali che raccontavo tra me e la mia amica immaginaria, sono diventate realtà.
La musica è stata occasione di esercizio e ascolto quotidiano.
Ha sempre accompagnato la mia fantasia, ha nutrito il mio paesaggio interiore, incoraggiandomi a superarne i confini, ad inoltrarmi più in là.
È stata cura reciproca, nel senso più antico del termine, in cui premura, sollecitudine, diligenza, attenzione, sono presupposti perché le parti della relazione possano uscire da sé per trovare il proprio centro nell’altro, con affetto e delicatezza.
È stata amica, ancor più fedele, nei momenti significativi della mia vita.
Dopo la morte di mio padre.
Ma anche dopo la nascita dei miei figli.
Nel dolore e nella gioia, proprio in quegli spazi di esistenza, in cui il mistero della vita e la sua delicata fragilità mi si è palesato in tutta la sua potenza.
E ineffabilità.
In cui il silenzio si sente forte, anzi fortissimo, e può far male, se non ci si predispone, infine, a comprenderne il linguaggio, a “sentirlo” e integrarlo per ciò che è venuto a dirci, accadendo.
Che bisogna prendersi una pausa da sé e ascoltare cosa il mondo fuori ha da insegnare.
Che, forse, una pausa dal mondo può riportarci al nostro spazio interiore, permettendoci di sentirlo, comprenderlo, amarlo. Accettarlo nella sua fragilità. Per poi ridisegnarlo, definendone direzione e obiettivi e bisogni.
Che perdendosi e rimanendo in ascolto ci si può ritrovare, più cresciuti e più consapevoli di prima.
Che riposarsi dalle parole e riposare la voce può farci ritrovare la circolarità del respiro, per lungo tempo dimenticato.
Che sentire il cinguettio degli uccelli e il vento d’autunno sul viso significa riappropriarsi dei propri sensi, spesso confusi e fiaccati.
Che sperimentando il vuoto, si può perdere l’equilibrio.
E invano ritrovarlo.
Se non si riconosce il battito del proprio cuore che, nonostante tutto, è lì, che
im-pla-ca-bi-le
        porta il tempo.
Ridonando colore e tonalità alle esperienze.
Facendone, a suo modo, armonia.
E in quell’istante comprendere che non si è soli.
Non si è soli, perché si è vivi.
il silenzio totale esiste anche all’interno di una composizione. Si tratta di una morte temporanea, seguita dalla capacità di resuscitare, di cominciare una nuova vita. In questo modo, la musica è più di uno specchio della vita: arricchita dalla dimensione metafisica del suono, dà la possibilità di trascendere i limiti fisici dell’essere umano.
La musica ha risvegliato il mio tempo, rimettendomi al mondo e ridandomi il dono della possibilità.
Schiudendomi sempre “il cielo dei tempi migliori”.
Così come una sinfonia è sempre preceduta e seguita dal silenzio in maniera viscerale e inscindibile, anche la musica è un legato tra passato, presente e futuro. Trascende il suono e diventa vita, ma bisogna saperne cogliere gli aspetti più nascosti e carpirne gli effetti. Bisogna volerlo, prima di tutto. Attraverso di essa si possono leggere, come sopra uno spartito, le nostre paure, le nostre gioie e i nostri dubbi, l’amore, la vita e la morte della vita. Ma la musica può molto di più. La musica suggerisce soluzioni, intermediazioni, compromessi vivibili e sostenibili, laddove l’incapace e infruttuosa ostinazione dell’uomo non sa e non vuole arrivare.
 
 
Elisabeth Schwarzkopf – An Die Musik (Franz Schubert)

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