Un anno da raccontare: un racconto al mese per tutto l’anno, scritti e illustrati da autori diversi – Novembre

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Mai controcuore

racconto e illustrazione di Rita Pugliese

 

Rita Pugliese

Mi precipitai nella tua stanza appena andò via la luce. La lampada d’emergenza non si accese e tentai di muovermi nel buio, come mi avevi insegnato tu, il giorno stesso in cui ti partorii. Chiamai più volte il tuo nome senza ricevere alcun tipo di risposta. Sentì cadere i tuoi pennarelli: rotolarono fino ai miei piedi, quasi a voler richiamare la mia attenzione in quel presagio da tempo ormai annunciato. Rimasi immobile sperando di percepire la tua presenza; con gambe pesanti, mi sforzavo di procedere in direzione della scrivania: sentivo l’odore dell’inchiostro fresco, appena sfiorai la sedia, tornò la luce e tu… sparito nel nulla!

Arrestai, di colpo, tra lo stomaco e la gola, quel senso di angoscia misto alla disperazione, che sentivo assalirmi senza tregua. Non potevo permettere alle mie emozioni di prendere il sopravvento; mi ero rieducata nel tempo a gestirle in modo lucido e lineare e questa tua sparizione sembrava voler essere l’esame finale per il passaggio ad un livello superiore di consapevolezza.

Mi affrettai a guardare la scrivania: c’erano tutti i tuoi “compagni d’avventura”, ordinati meticolosamente nelle scatole. Riuscivi ad avere cura di loro, che ora mi guardavano con espressione curiosa e divertita, dietro al riflesso di quel muro di plastica che separava il tuo mondo dalla mia realtà. Mi accorsi dei tuoi disegni, i tuoi mille tentativi di riprodurre quell’ambiente a te famigliare: stazioni, rotaie, treni, umanoidi personalizzati. Minuziose riproduzioni del tuo universo di locomotive, l’evoluzione del trenino Thomas: i Robot Trains! La scatola di Kay cadde e si aprì: lo vidi sfrecciare sull’inchiostro ancora fresco e cadere in quel “portale” di cui eri solito parlare e disegnare nel tuo quotidiano.

Avevi intrapreso il viaggio nel tuo mondo nei primi anni di vita. Qualcosa ti ha portato via da questa realtà, che ancora rifuggi con tenacia. I trenini sull’isola di Sodor ti hanno condotto lontano, in quel mondo fantastico nel quale hai creduto di trovare protezione e sicurezza anziché tra le mie braccia. Hai scelto quella realtà per non guardare e non percepire la tua identità e, dopo aver superato le mie paure, crescendo con te, ho imparato ad osservarti e ad accogliere il tuo modo di essere opposto al mio.

Arrivò così il giorno in cui stavo per entrare in quel “buco spazio-tempo”. Chiusi gli occhi e mi affidai al mio istinto: dopo un lungo respiro avvicinai la mia mano al disegno e, senza opporre resistenza, mi ritrovai inghiottita in una spirale di colori psichedelici. Rimasi sospesa ad osservare lo strano avvicendamento fantasmagorico di luci, colori, immagini e figure attorno a me. Rapita da un caleidoscopio, come quello nel quale ero solita perdermi quando ero bambina, iniziai a ridere divertita dal susseguirsi di matite e pennelli che mi solleticavano ovunque fino a farmi riprendere le sembianze di me bambina a 11 anni.

Sapevo di essere tornata all’età in cui si chiuse una parte del mio cuore e mi affacciai al dolore di quella perdita che cambiò parte del mio cammino esistenziale. La dipartita di mio nonno, il giorno del mio undicesimo compleanno, sancì l’inizio di un viaggio difficile durante il quale la mancanza di fiducia in me stessa cresceva in quel mondo in cui, a mio tempo, avevo trovato pace e consolazione. A mio modo rifuggivo quella realtà che mi opprimeva: diventai con il tempo un’abile sognatrice, fantasticavo di mondi sconosciuti e quell’amore insufficiente al mio fabbisogno animico cercava spazio al di fuori di me. Ero certa che Virgilio fosse accanto a me: iniziai a percepirne la presenza ovunque: nel vento, le sue carezze; negli alberi, le mie radici; nel sole che mi riscaldava anche nei giorni più freddi e silenziosi; nei lampioni che si spegnevano ad intermittenza nelle mie lunghe passeggiate, quasi a richiamare la mia attenzione al mondo “sottile” ma soprattutto a lui. 

Ero arrivata al punto di non sapere più quale fosse il vero mondo ma ogni accadimento mi riportava nella frustrazione di una realtà che non mi apparteneva. Faticavo a crescere in bilico tra il mio sentire e il quotidiano con tutte le sue difficoltà; sentivo di non avere nessun riferimento esterno, sebbene mi impegnassi ad aprirmi con fiducia agli altri. Con i miei ideali, combattevo il nemico come un Don Chisciotte contro i mulini a vento; i pochi amici, gli alleati; il mio adipe ingombrante, un’armatura; ed i miei capelli rossi, un segno univoco che mi rendevano la strega e la guerriera della mia storia; i miei sogni, la speranza quando sperare non bastava nemmeno a sopravvivere.

Fino a quando decisi di arrendermi e di soccombere.

Virgilio sembrava essersi dissolto con le favole che ero solita raccontarmi: aveva smesso di fare la magia e l’incanto si trasformò nel disincanto della verità. In quegli anni adolescenziali sentivo il cuore sbriciolarsi e il mio mondo fantastico crollare davanti ai miei occhi. Mi arresi alla sofferenza, alla violenza, all’ingiustizia chiudendomi ermeticamente tra i libri di scuola. Mi sforzavo di rimanere presente, cercando quel portale dimenticato che mi concedesse la forza di continuare… ma niente riusciva a guarire quel malessere insinuatosi con forza dentro quella gabbia dove sopraggiunse la necrosi del cuore. Scelsi, con coraggio, di andare a cercare Virgilio: giusto il tempo di decidere come farlo, senza nessun commiato. Tentai invano di percorrere quella strada a cui mi fu impedito di accedere: nella disperazione, venne a “prendermi” mia madre, sua figlia. Mi ci volle tempo e pazienza. Ebbi ri-cucito il cuore per sentire e ri-aperto gli occhi per vedere. Dovetti fare i conti con quella bambina che avevo dimenticato e che chiedeva di essere ascoltata e liberata. Ogni giorno sedeva accanto a me e mi fissava silenziosamente, paziente come sempre.

Nella discesa, in quella spirale di colori, il mio cuore batteva e sbatteva ai margini dei miei pensieri. Nella fase di trasformazione, improvvisamente, venne meno il sorriso; ripercorsi il labirinto della frustrazione, con la sensazione di essermi persa ancora una volta: imploravo a me stessa di non desistere, non proprio quando dovevo raggiungere te. Compresi che stavo percorrendo quel confine sfuggente e sempre mobile tra il vecchio ed il mio nuovo modo di comprendere la vita, al limite con l’ignoto, in attesa di essere vissuto e capito. Non provavo vergogna nel guardare le cicatrici che erano i segni del tempo e del dolore. Avevo imparato a domare paure e aspettative; ad essere meno severa con me stessa. Mentre mi svuotavo dai pensieri, cresceva il desiderio di essere compresa. Ritornai nei panni di quella bambina con la consapevolezza di una libertà radicata nel cuore. I miei occhi si riaffacciavano alla vita su qualcosa che non muore mai: l’amore… lo stesso con il quale mi stavo avvicinando a te.

Ripresi a sorridere giungendo al termine di quel viaggio senza tempo.

Goffamente caddi ai piedi di un lampione: “Ciao Brighella, ti sei fatta male?”; alzai lo sguardo, non vidi altro che un palo con una lanterna accesa sopra di me, ma riconobbi subito la sua voce. A fatica, per l’emozione, mi rimisi in piedi. Aveva assunto un’altra forma, ma non ebbi alcun dubbio: avevo ritrovato la mia guida di sempre, il mio faro. Presi tempo, risistemandomi gli abiti ed i capelli e, come se fosse la cosa più naturale che potessi fare, dopo aver preso un lungo respiro risposi:

– Sto bene, nonno! Sai dove posso trovare mio Figlio?

Guardandomi attorno realizzai di essere a Train World. Un tripudio di colori confondeva la mia vista ma quell’aria di festa mi metteva gioia. Rimasi vicino a Virgilio in attesa che qualcosa accadesse. Osservavo Piazza della Fontana dove i Robot Trains erano soliti transitare per condividere le loro avventure. Vidi arrivare Becky verso di me che, petulante, disse:

– Finalmente sei arrivata! Dobbiamo andare immediatamente da tuo Figlio e dal resto della squadra! Stiamo cercando di sconfiggere Duke. Se dovesse avere la meglio su di noi, non potremo più esistere nel mondo di tuo Figlio e lui è venuto qui per impedirlo.

Indugiai per un attimo e pensai cosa sarebbe stato se fosse accaduto realmente.
Provavo ancora la sensazione di quel viaggio compiuto prima di giungere fino a lì. Stavo cercando di proteggerti, di metterti al sicuro con i mezzi di cui disponevo per trovare il modo di comunicare con te. Eri il mio riflesso, una parte di me era radicata dentro di te. Immaginavo l’edera crescere attorno al tuo cuore, patendo la frustrazione di madre incapace nel volerla estirpare con forza. Mi arresi all’evidenza di quel groviglio di emozioni inespresse. Il mio sentire venne coadiuvato dal pensiero, dal coraggio e dalla comprensione. Deposi ogni falsa aspettativa che mi portava lontano da quella strada che, cocciutamente, non vedevo. Venne il tempo di non ascoltare chi, emotivamente coinvolto, non vedeva per paura propria. Il mio cuore sapeva, il mio cuore vedeva con chiarezza. Fallibile e possibilista, chiedendo aiuto altrove, avevamo iniziato quel percorso di crescita con fatica e pazienza.

Realizzai che ero lì per noi. Virgilio mi incoraggiò e salii sulla locomotiva Becky per raggiungerti. Sfrecciava in quel mondo in cui riconoscevo te e me. Un susseguirsi di luoghi e personaggi di cui spesso mi parlavi, senza che io ti ascoltassi attentamente. Ognuno riportava un aspetto di te: era il tuo modo di comunicare con me e con gli altri. Mentre mi avvicinavo a te, l’aria si fece più densa; faticavo a respirare. I colori sbiadivano. Affacciandomi dal finestrino vidi ciò che rifuggivi: ologrammi di quella civiltà in guerra con se stessa, la superficialità e la noncuranza dei rapporti umani; l’inesprimibile di quella visione superficiale del mondo nel tuo “non mi piace”. Mi scuoteva ritrovarmi in quel diniego che mi turbava ma che avevo imparato a tollerare. Chiusi gli occhi per non vedere. Becky iniziò a rallentare. Giungemmo ai piedi di una montagna. Il paesaggio senza allegria aveva preso il posto a quello della spensieratezza e della gioia. Ad attendermi c’erano tutti i Robot Trains, ma di te non riuscivo a scorgere nemmeno l’ombra.

Si avvicinò Kay, con aria sconsolata: – Sei arrivata tardi. Tuo Figlio è prigioniero nella fortezza di Duke, il padrone della realtà. Ha dimostrato, con le sue doti, di riuscire a destreggiarsi nei due mondi. Poi il coraggio gli è venuto meno quando Duke gli ha mostrato cosa ne sarebbe stato di lui senza di noi. Abbiamo opposto resistenza ma si è lasciato sopraffare dallo sconforto e senza esitare è salito a bordo di Duke. Si è piegato alla realtà, capisci? Nessuno potrà più fare nulla… ha scelto, ha deciso così! Obbligato dalla società, dalle etichette, dalle convenzioni… ha scelto di omologarsi!

Quelle parole mi risuonarono famigliari e mi sentì in colpa poiché avevo concorso a quella resa. Non sarebbe dovuto accadere: guardai quei robottini tristi e pensavo a mio Figlio nella sua solitudine interiore. Ero nuovamente la sola a dover scegliere. Mi voltai verso di loro e, senza proferire parola, iniziai a correre verso la montagna.

Iniziai la scalata con fatica: la vita mi aveva insegnato ad adoperarmi al meglio per me e per gli altri. Raggiunsi la cima senza pensare a nulla, volevo solo vedere mio Figlio e parlargli. Lentamente mi avvicinai alla fortezza; attendevo qualche attacco esterno ma tutto taceva in quel paesaggio angusto. La porta era chiusa a chiave; bussai ma senza ricevere risposta. Feci il giro della fortezza, sperando di trovare il modo per accedervi. Trovai una finestrella con le inferriate. Guardai dentro e ciò che vidi mi fece inorridire: mio Figlio sedeva su una piccola sedia rossa con lo sguardo ipnotizzato da uno schermo che proiettava immagini di vita reale. Non indossava più gli occhiali: costretto a vedere tutto. Ripiegato su stesso, con gli occhi colmi di lacrime ripeteva una sorta di nenia dalla quale riuscivo a scorgere solo la frase “sempre presente a te stesso”. Un mantra di dolore. Mi sentivo il cuore in gola; credevo di affogare nelle mie stesse lacrime. Rimisi ogni emozione al suo posto. Provai a chiamarlo ma non mi sentiva. Presi fiato ed iniziai a cantargli la ninna nanna con la quale mi congedavo da lui ogni sera prima che lui chiudesse gli occhi per trasferirsi nel suo mondo magico. Come sperato e voluto, si voltò verso di me. A fatica si alzò dalla sedia e venne verso di me: – Ma tu chi sei? Assomigli a Pippi Calzelunghe, ma non sei lei!

Sorrisi per quel goffo approccio. Mentii sul nome e sulla mia identità scegliendo con cura quello che più mi rispecchiava: – Mi chiamo Alice e stavo cercando un coniglio bianco con un orologio. Lo hai visto passare?

Mio Figlio mi fissava senza rispondere; guardandosi attorno, mi assecondò in quella ricerca fino a giustificarsi: – Mi spiace, ero impegnato a fare altro e non mi sono accorto di un coniglio con un orologio! – Poi iniziò a ridere e mi disse: – Impossibile che esistano conigli con orologi. Sei sicura di stare bene?

Non mi persi d’animo e riconobbi nuovamente quella serendipità che mi aveva assistito in diversi momenti della vita. Spinta dalla naturale predisposizione ad affrontare una nuova sfida come l’ennesima opportunità, senza bloccarmi per paura del fallimento, iniziai a raccontargli, in veste di Alice, le mie avventure nel “Paese delle meraviglie”. I nostri “mondi” si erano finalmente incontrati. Ascoltai le sue avventure distorte che da sempre apparivano come bugie e ciò che avevano rappresentato per me il suo modo “folle” di stare nella vita. Ero arrivata a lui precipitando in quel buco “spazio-tempo”. Ero quella che credeva che se io avessi un mondo come piace a me, là tutto sarebbe assurdo: niente sarebbe com’è, perché tutto sarebbe come non è, e viceversa! Ciò che è non sarebbe e ciò che non è sarebbe.

Entrambi rapiti dai nostri racconti, mi accorsi che quelle sbarre ci dividevano come a voler delineare quel confine tra i due mondi. Gli chiesi di raggiungermi all’esterno. Esitò per un istante rimettendosi a sedere su quella seggiolina rossa: – Non posso, è impossibile! Devo vivere nella realtà: me lo chiedono tutti, perfino mamma e papà! Non voglio deluderli. Non posso più essere ciò che sono stato fino ad oggi! Tu sei matta e nessuno riuscirà mai a capirti se continui a vivere in questo mondo di favole! Svegliati, io sono qui perché ci sto provando. Tu fai quello che vuoi!

Cercai il suo sguardo: – Io so cosa vuol dire vivere nella vita reale, arrivo da lì!

Mi guardò con aria di sfida: – Non ti credo, sei pazza ed anche bugiarda!

Volevo farlo ragionare: – Guardami, appartengo alla tua specie, quella umana! Non sono un fumetto o un cartone animato! Non sono un Robot! – Gli spiegai quanto fosse difficile anche per me stare in quella realtà. Avevo sofferto e continuavo a soffrire per non sentirmi come gli altri. Ammisi che era importante stare nella vita ma era altresì importante cercare una via di fuga: un sogno, un mondo nel quale trovare pace; era il segreto per rimanere vigili e attenti e per conservare il nostro bambino interiore; era un modo per ascoltarsi e conoscersi. Non era la testa che pianificava: era il cuore che sognava e desiderava ritrovare la vita ovunque. L’immaginazione era il frutto della creatività. Era la madre di quella realtà stimolata dal progresso e dalla sua evoluzione. Rimanemmo in silenzio per qualche minuto. Mi lasciai trasportare dall’emozione di quel momento… piansi ancora. Vidi che si alzò dalla seggiola e venne alla finestra: – Sei venuta a salvarmi? – chiese.

Lo guardai negli occhi e risposi: – No, sono venuta per aiutarti a liberare le tue emozioni e lasciarle vivere con te attraverso le esperienze che farai nella tua vita. Sorrise e corse verso la porta. Si aprì per volontà sua appena appoggiò la mano sul pomello. Gli andai incontro e lo abbracciai. Eravamo complici in quell’avventura. Mi disse che voleva tornare a casa chiedendomi di riaccompagnarlo verso quel portale. Duke, dopo aver ascoltato la nostra conversazione, ci chiese di salire a bordo. Salutammo i Robot Trains con la promessa che saremmo tornati presto anche da loro. Sfrecciando sulle rotaie di Train World, tornammo in Piazza della Fontana. Ci avvicinammo a Virgilio: mio Figlio mi prese la mano e guardandomi mi disse: – Tigrotta, dobbiamo andare, la vita reale ci aspetta. Pensavi fossi così sciocco da non riconoscerti? Sono abile a stare tra i due mondi e tu sei la guardiana del mio tempo.

Abbracciai mio nonno e, senza dire nulla, la sua lanterna si accese e si spense tre volte, come sempre nel mondo reale quando passavo sotto a un lampione e sentivo che non ero mai da sola. Si aprì quel portale sopra di noi… una scala a pioli ci avrebbe riportato nel caleidoscopio. Mio Figlio andò prima di me… esitai un attimo ma poi mi avviai, con malinconia leggera, verso di lui.

La sveglia indicava le 23.11. Mi ero appisolata sulla mia poltrona. Avevo sognato o realmente accadde tutto ciò che avevo vissuto nel mondo onirico? Il silenzio della casa mi riportò in quello stato di veglia attiva. Sentivo muoverti nel letto mentre, come tuo solito, bofonchiavi qualche parola strampalata. Rimasi in ascolto. Arrivò la carezza della sera quando si spense la candela. Sorridendo, ancora intorpidita, presi il mio quaderno dei “pensieri sparsi” dove annotai l’ultimo pensiero di quel viaggio:

E non c’è mai un tempo giusto per piangere o per amare,
per ridere o per scherzare,
per guardarti negli occhi e per capire l’immenso che ti appartiene.
Perché con te,
ogni tempo è giusto per ascoltarsi dentro,
per essere se stessi,
per non nascondersi dietro maschere fasulle,
per essere sinceri,
per esternare emozioni, quelle vere.
Quelle che mi fanno battere il cuore ogni volta che siamo insieme.
Quando mi chiedi scusa
perché la tua testa è persa tra le nuvole
ed io ti costringo a ritornare qui nel mondo delle convenzioni sociali,
la mia voglia di evadere si unisce alla tua
perché noi siamo fatti di emozioni:
la tua fantastica sregolatezza / la mia lucida esistenza.
A te, che sei il mio “per sempre”.

 

 

 


Rita Pugliese: Con leggerezza provo a vivere sul serio: non sono una MAESTRA di vita, tantomeno non sono la “MUSA” di nessuno. Non ne ho mai avuto il tempo, la superbia e la voglia di esserlo! Sempre troppo occupata a vivere e sognare nel mio “essere” imperfetta… a ribellarmi contro le convenzioni ed alle regole, senza giudizio e pregiudizio! Per imparare come re-inventarmi, per non “appassire”… per rifiorire ogni volta…

Se hai piacere a leggere i miei “pensieri sparsi”, seguimi sulla mia pagina Facebook Rita Pugliese, ma soprattutto sul mio profilo Instagram Red_Irish76.

 

 

 

6 commenti

  1. Semplicemente meraviglioso…un viaggio breve ma profondo e intenso ..grazie per l’ennesima emozione che anche oggi mi hai donato…ti seguo sempre con piacere cara Rita, solare e al tempo stesso malinconica anima antica…Amica Mia

  2. Quando la vita ti vive e tu raccogli ogni suo segno e lo rendi unico come sai fare con ogni sguardo di apprendimento …..
    Maicontrocuore può essere un buon insegnamento per il vivere con se stessi .
    Grazie dei piccoli gesti .

  3. Semplicemente stupendo … ❤️ Sei riuscita fin dalle prime righe ad emozionarmi , a farmi entrare nel ‘’ portale “ un mondo sconosciuto a molti di noi , ma che basta poco poterci entrare basta solo vedere con i loro occhi, e un percorso sicuramente non facile , ma conoscendoti sono sicura che riuscirai nella tua impresa perché sei una donna speciale come il tuo piccolo😘😘😘

  4. Una linea sottile che unisce ciò che divide…GRAZIE per questa emozione, qui e in altro dove…GRAZIE per tutto questo AMORE

  5. Bisogna essere grandi nell’animo per vedere l’essenziale, per raccontare con delicatezza e forza una storia meravigliosa, la propria. Grazie Rita per questo racconto prezioso e immenso!

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