Bookcoaching: Quel che resta del giorno

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Può darsi che sia insito nella natura stessa del partire per un viaggio come questo il fatto che ci si senta indirizzati verso nuove e sorprendenti prospettive relativamente a temi sui quali si credeva di aver pensato profondamente e per molto tempo.

 

 

Ho letto e ascoltato tante storie.
Mi piace entrare in punta di piedi nella vita degli altri, se ho l’invito a farlo dalla porta principale lo preferisco e ne sono onorata; altrimenti non spio né origlio: mi limito a osservare da lontano, che alcune cose si comprendono ugualmente, anzi forse meglio da una certa distanza.
Tante storie si somigliano tra loro, cambiano i nomi dei protagonisti, ambienti e situazioni, ma di fatto seguono le stesse dinamiche, soprattutto se coincidono le premesse e, ancor di più, le credenze, come la riluttanza a modificare in misura eccessiva le consuetudini di un tempo. Ma non vi è merito alcuno nel rimanere aggrappati alla tradizione esclusivamente per il gusto di farlo.
Perché il “si è sempre fatto così” non è una motivazione valida per reiterare certi atteggiamenti, specialmente se ci si ritrova invischiati in una vita che non si è scelto e si indossano panni che, a pensarci bene, proprio comodi non sono.
Alzi la mano chi almeno una volta, e per un periodo più o meno lungo, non si sia adeguato alle aspettative altrui e cristallizzato in un ruolo personale o professionale, senza concedersi il diritto di porsi la domanda “cosa voglio io?” Con l’aggravante del senso di colpa indotto: “se sono chi voglio essere, se faccio un lavoro che mi piace, se sto bene allora non sono una persona seria”.
Ma perché? È una questione di dignità, dicono, come se il benessere fosse sinonimo di piacere frivolo e voluttuoso, e in che cosa credete che consista, voi, la dignità? … ho il sospetto che per tante persone sostanzialmente consista nel non togliersi i panni di dosso in pubblico.
Lecita come risposta. La condivido anche, in parte però.
Capita anche a me di essere particolarmente riservata, con qualcuno e in determinate circostanze: difficilmente arrivo a recitare una parte, preferisco piuttosto uscire di scena e agire dietro le quinte semmai.
Scelte.
Mi chiedo, tuttavia, che dignità ci possa mai essere nello snaturarsi completamente per compiacere tutto e tutti tranne se stessi, oramai refrattari alle emozioni, all’esigenze e ai pensieri; e mi domando che senso abbia farlo sempre e con chiunque, anche con chi ha dimostrato di esser degno di fiducia.
Ognuno percepisce se stesso e il mondo diversamente, si tratta di registri linguistici ed emotivi differenti, me ne sono fatta una ragione, eppure spesso non riconosco il confine tra la discrezione, la dignità, la diffidenza e la presa di distanza da qualcuno. E mi domando se la fedeltà troppo serrata alle convenzioni dell’educazione, e al ruolo che si interpreta, non rischi di rendere rigidi, inconsapevoli e ciechi.
Lo sono stata anche io: rigida, inconsapevole e cieca. C’è stato un periodo in cui ho smesso di essere curiosa, l’ho fatto perché istintivamente sapevo che altrimenti avrei scoperto che no, così non si poteva continuare e, nonostante tutto, c’era sempre una vocina dentro di me che mi diceva: “Tu lasci che tutto questo accada davanti a te e non pensi mai di guardare per vedere di che cosa si tratta”.
Non posso nemmeno affermare di aver commesso i miei propri errori. E davvero – uno deve chiedersi – quale dignità vi è mai in questo?
Ho poi deciso di dare retta a quella vocina e di smetterla di identificarmi nel ruolo che mi è stato assegnato, probabilmente con il mio contributo.
E da allora tutto è cambiato, in meglio direi.
Ma questo non vuol dire, naturalmente, che non vi siano momenti di tanto in tanto – momenti di estrema tristezza – quando pensi tra te e te: “Che terribile errore è stata la mia vita”. E allora si è indotti a pensare ad una vita diversa, una vita migliore che si sarebbe potuta avere … Dopotutto ormai non si può più mettere indietro l’orologio. Non si può stare perennemente a pensare a quel che avrebbe potuto essere. Ci si deve convincere che la nostra vita è altrettanto buona, forse addirittura migliore, di quella della maggior parte delle persone, e di questo si deve essere grati … dobbiamo essere grati di ciò che realmente abbiamo.
In passato ho fatto tanti errori, innocui e no, e dagli effetti più o meno duraturi.
Mi sento tuttavia di poter affermare che ne avrei fatti molti di più se oltre venti anni fa non avessi letto Quel che resta del giorno di Kazuo Ishiguro, se non l’avessi trovato folgorante e non mi fosse rimasto nel cuore fino a oggi.
Ho sbagliato in tante cose, è vero, e continuerò a farlo, ma oggi ho una certezza: dovrei smettere di ripensare tanto al passato, dovrei assumere un altro punto di vista più positivo e cercare di trarre il meglio di quel che rimane della mia giornata. Dopotutto che cosa mai c’è da guadagnare nel guardarsi continuamente alle spalle e a prendercela con noi stessi se le nostre vite non sono state proprio quelle che avremmo desiderato? … Che ragione c’è di preoccuparci troppo circa quello che avremmo o non avremmo potuto fare per controllare il corso che la nostra vita ha preso? Di certo è sufficiente che quelli che come voi e come me almeno tentiamo di offrire il nostro piccolo contributo in favore di qualcosa di vero e di degno. E se alcuni di noi sono pronti a sacrificare molto, nella propria vita, al fine di perseguire tali aspirazioni, ciò sicuramente rappresenta in sé, quali che siano i risultati che ne derivano, motivo di orgoglio e di felicità.

 

(Kazuo Ishiguro, Quel che resta del giorno, Einaudi, Torino 2016)

 

 

– Post pubblicato nel blog di Accademia della Felicità il 12 aprile 2017 –

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