Ricordate che la felicità è un viaggio, non una destinazione.
L’appagamento e la felicità vanno cercati dentro di sé. Spostarsi semplicemente da un posto all’altro non migliora le cose.
Quando ero molto piccola, tre-quattro anni, dicevo agli altri, genitori compresi, di avere un fratellino poco più grande di me che viveva a Bologna. Solo che io non sono di Bologna, non l’avevo mai visitata né avevo mai avuto alcun tipo di familiarità con quella città, che chissà dove localizzavo data la mia poca dimestichezza con la cartina geografica all’epoca. (Ho atteso più di tre decenni per andare a visitarla e, lo ammetto, mi sono compiaciuta di aver scelto una gran bel posto per lui che, seppure adulta, per gioco cercavo negli occhi dei miei quasi coetanei per strada).
Raccontavo dunque una bugia, in buona fede, nella mia testa era tutto vero: lui c’era e lo sentivo vicino, mi faceva tanta compagnia e avevo la percezione che mi proteggesse, non ero mai da sola.
Poi sono cresciuta e, dato che continuava a non venirmi a trovare, ho dato al mio fratellino immaginario la libertà di vivere la sua vita lontano da me (non si può costringere qualcuno ad amarti quanto lo ami tu) e ho pian piano iniziato a dimenticarmi di lui, sentendo nel tempo la mancanza di qualcuno che comprendesse appieno le mie emozioni e le descrivesse là dove le mie parole impacciate di adolescente timida non riuscivano; qualcuno che mi rassicurasse sul fatto di aver preso una decisione giusta o mi desse la forza di tornare sui miei passi a rinnegare scelte che non mi rispecchiavano più, perché le cose sbagliate non le scordi. Ti restano in testa, come un ladro che si aggira intorno a una casa progettando il prossimo colpo … La cosa sbagliata che hai fatto sta sempre lì a ricordarti che esiste.
E così ho continuato a perpetrare lo stesso errore per anni, inconsapevole di essermi adeguata a un modus vivendi che non prevedeva ripensamenti o deragliamenti dal binario intrapreso e, ancora riconoscente per tutto il bene ricevuto da più parti, sono andata avanti con il vestito che mi ero cucita addosso: senza rendermene conto avevo anche io aderito a una religione molto severa, la Chiesa dell’etichetta Sociale. Il pontefice di quella chiesa era la Gente. Ossia, ogni azione compiuta e ogni parola pronunciata dovevano essere precedute dalla domanda: cosa penserà la gente? Dunque il credo: Mai piangere. Mai mostrare emozioni, mai esprimere la propria vera natura. Quando qualcuno ha già deciso chi devi essere e, senza ascoltare, è convinto di doverti indicare la strada giusta per te, pena la gogna pubblica, a volte capita di affidarsi e, sì, anche snaturarsi, credevo fosse una mia scelta, ma ero intrappolata in una menzogna colossale. Così mi sono ritrovata sulle spalle un segreto enorme, una grande bolla di dolore che si è trasformato in rabbia, e poi in rimorso, e poi in solitudine.
E il tempo è passato e, se non ti prendi cura di te stessa, prima o poi la vita se ne accorge e viene a chiedertene conto e anche io, come la Lucy del libro Cose che avrei preferito non dire (ma io prediligo il titolo originale The Time of my Life) di Cecelia Ahern, sono stata convocata dalla mia vita. Be’, certo. La mia vita aveva bisogno di me. Stavo passando un periodo critico e ultimamente l’avevo un po’ trascurata. Ero distratta da altre incombenze: gli amici, il lavoro, la macchina sempre scassata, quel genere di cose. Avevo del tutto dimenticato la vita … e c’era una sola cosa da fare. Incontrarla, faccia a faccia, scoprendo che era un incubo, peggio di quanto immaginassi. La mia vita era un bastardo rancoroso, e la cosa faceva proprio male. Perché era maleducato, ma soprattutto perché aveva ragione. Dicendomi con toni accusatori “Ti importa delle persone, infatti non è mai stato questo il problema. Devo solo fare in modo che ti importi anche di me”, mi spezzò il cuore. Nessuno mi aveva mai detto niente del genere, prima. E adesso eccolo lì, un ragazzo esausto e disperato con l’alito pesante e la giacca stazzonata, che voleva soltanto piacere a qualcuno.
E anche se il primo impatto non è stato dei migliori, non avrei mai avuto il coraggio di ricacciarlo indietro, perché in fondo ero stata io a invocarla la mia vita, identificandola in quel fratellino immaginario ritornato finalmente da me per dirmi:
“Nella vita capita di prendere decisioni sbagliate, qualche colpo di sfortuna, e devi andare avanti lo stesso, no? Nessuno vede la parte nascosta di te, e se non si vede – se non puoi farle la radiografia – di solito si tende a ritenere che non esista. Però io sono qui: sono l’altra parte di te. Sono la radiografia della tua vita. C’è uno specchio davanti a te, e io sono il riflesso. Ti mostro dove fa male, ti spiego perché sei infelice. Capito? … Più tu vivi la tua vita, meglio mi sento io; più tu sei soddisfatta, più io sono in salute”.
“Cioè la tua felicità dipende da me?”, gli ho domandato, il terrore negli occhi per la grande responsabilità.
“Preferisco pensarla come una squadra … Permettimi di passare del tempo con te”, e con fatica gliel’ho gradatamente consentito, nonostante le sue domande impertinenti e i continui rimbrotti, sempre però accompagnati da una fiducia immensa nei miei confronti (Tu sei responsabile della tua vita e di quel che ti succede, e la stessa cosa vale per gli altri … C’è un esito, ci sono ripercussioni e conseguenze per ogni azione) e lo sprone ad abiurare a quella fede indotta: “Un sogno è qualcosa che vuoi sforzarti di realizzare. Qualcosa che sembra al di là della tua portata, ma che sai di poter ottenere con un po’ di duro lavoro … I sogni dovrebbero farti pensare: Se avessi un po’ di fegato, e non mi importasse del giudizio della gente, questo è ciò che farei davvero” … bastava iniziare a buttar via le cose vecchie e il resto della zavorra cadeva giù facilmente.
Per i curiosi, condivido le domande impertinenti a cui mi sono ritrovata costretta a rispondere:
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quanto sono stata autentica nel corso della mia esistenza e quanto, invece, mi sono fatta definire da altre persone?
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quanto, in tutti questi anni, mi sono data il permesso di sognare?
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quanto troppo spazio ho concesso a cose e persone, pur sapendo che occupavano una parte ingombrante della mia vita impedendomi il respiro?
Quando ero molto piccola, tre-quattro anni, non avrei mai creduto che dopo quasi quarant’anni avrei avuto ancora bisogno del mio fratellino immaginario per essere incoraggiata con amore a essere me stessa, perciò grazie per essere ritornato nella mia vita e ora credo che ci rivedremo più spesso, in fondo Bologna non è poi così lontana.
(Cecelia Ahern, Cose che avrei preferito non dire, BUR, Milano 2015)