Bookcoaching: “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore” di Raymond Carver

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Ci si “dovrebbe vergognare quando parliamo come se sapessimo di cosa parliamo quando parliamo d’amore” esorta Raymond Carver nell’omonimo racconto che dà il titolo a una raccolta di diciassette brevi scritti, tutti in orbita intorno al più indecifrabile dei sentimenti, che rifugge a qualsiasi definizione univoca e imperitura, vissuto in maniera del tutto personale anche all’interno di una coppia.
Questo libro è per chi pretende di dare un’unica interpretazione all’amore e di assegnarne una lapidaria etichetta; per chi ritiene che debba essere sempre sfavillante e favoloso e che sia la soluzione a tutti i problemi; per chi pensa che in nome dell’amore si debba essere disposti a sopportare tutto; per chi fa fatica ad ammettere l’esistenza di amori rassegnati o si annoia in amori coltivati nella routine dei gesti e delle cose semplici; per chi si adagia al pensiero che, una volta conquistato, l’amore diventi un diritto acquisito e non sia più necessario nutrirlo, rischiando così di comprometterlo e perderlo per sempre.
Non c’è garanzia sul fatto che, una volta riconosciuto, l’amore sia eterno o sia per sempre appagamento passionale ed emotivo: la vita scorre, noi insieme a lei (pánta rêi avrebbe detto Eraclito), e ci cambia; e sovente accade di essere ardentemente innamorati della persona a cui un domani si riserverà un sentimento di altrettanto intenso odio. D’altra parte, cos’è l’amore per ciascuno di noi? C’è chi lo riconosce nella violenza spietata di un uomo sulla propria donna, ostinato a perseguitarla fino a togliersi la vita per lei; chi, invece, sbigottisce di fronte a un vecchietto ingessato da capo a piedi e immobile su un letto di ospedale che, pur sopravvissuto a un grave incidente stradale insieme alla moglie, si strugge fino alla depressione “solo” perché, per quanto viva e nel letto accanto al suo, non può girarsi per guardarla negli occhi. (Di cosa parliamo quando parliamo d’amore)
Capita che l’amore svanisca o che i sogni s’infrangano senza un motivo, perché a volte le cose banalmente accadono, come a Holly e Duane: lei, tradita dal marito, non trova più il senso della propria esistenza e si abbandona all’alcol, trascura il lavoro, agogna la fuga e la morte; lui, che non ha mai smesso di amarla e si sente perso senza la moglie, è incapace di trovare una giustificazione alla sua infedeltà, tantomeno una soluzione al dramma che stanno vivendo: sa solo di non volerla perdere, nella consapevolezza che oramai tutto è cambiato e si è dileguato il loro sogno di invecchiare dignitosamente insieme. (Gazebo)
Nella coppia l’amore può anche diventare sinonimo di solitudine e rassegnazione, come è per Nancy la quale, impaurita da un rumore notturno, invano chiede aiuto al marito profondamente addormentato e decide di affrontare da sola il “nemico”, ossia il suo innocuo vicino di casa ossessionato dalle limacce che gli danneggiano il giardino, proprio come Cliff le ha sciupato il cuore. (Riuscivo a vedere ogni minimo dettaglio)
L’amore a volte delude perché succede di non conoscere davvero il proprio compagno di vita, come è disillusa Claire quando scopre che, durante una scampagnata al fiume, il marito e tre suoi amici (tutti “brave persone, padri di famiglia, responsabili sul lavoro”) hanno vissuto consapevolmente per tre giorni a pochi passi da un cadavere di una donna e, ancora peggio, hanno pescato e si sono lavati nella sua stessa acqua; “tanto era morta” continua a giustificarsi Stuart, e giunge all’apice del cinismo quando confida di appianare tutto facendo l’amore con la moglie sconvolta, ora ancora più vulnerabile accanto a un uomo che le è oramai estraneo. (Con tanta di quell’acqua a due passi da casa)
Esistono gli amori inevitabili e frustrati, che non si fermano davanti all’“insensato”, e gli amori tormentati e funesti, come quello del buon Dummy il quale, offeso da amici e moglie infedele, trova appagamento ossessivo nell’allevamento di trote nello stagno di sua proprietà. Fino a quando una forte alluvione crea un unico rivolo tra lo stagno e il fiume, rendendo libere le trote sopravvissute che, come la moglie, ora sfuggono al controllo di Dummy con conseguenze nefaste per lui e per chi gli sta attorno. (La terza cosa che ha ucciso mio padre)
E poi esiste l’amore indolente di alcune famiglie, in cui ci si allontana così tanto da non intendersi e non parlare più, dandosi reciprocamente del matto e negando ogni responsabilità, difficilmente imputabile a un unico soggetto. (Un’altra cosa)
Ma dopo un litigio furibondo che si teme abbia messo in discussione il rapporto d’amore, ci si può calmare e vedere tutto nella giusta dimensione ritrovandosi legati più di prima: discutere, anche con veemenza, magari in periodi di grande stanchezza e debolezza, non significa necessariamente che il sentimento sia svanito. (Distanza)
Non solo d’amore Carver scrive, ma di vita vera, a volte vacua e insensata, spesso trascurata e rassegnata, e l’aspetto più inquietante è che i suoi personaggi non sono dei marziani, ma persone comuni, come tutti noi. Nessuno può sentirsi del tutto al riparo dal pericolo di ritrovarsi un giorno catapultato in un’esistenza mortificata dall’apatia, dall’inerzia, dall’egosimo, dalla rinuncia ai sogni e ai progetti, dalla mancanza di dialogo ed entusiasmo, dalla perdita di consapevolezza di sé e del contatto con la realtà. Vale davvero la pena rinunciare a cambiare in meglio la nostra vita?
“Quando siete felici fateci caso” ci avrebbe consigliato Kurt Vonnegut.
Quando non lo siamo, adoperiamoci per diventarlo, avvalendoci del prezioso strumento della comunicazione come presupposto per conoscere e metterci in contatto con la realtà dentro e fuori di noi, per entrare in relazione con noi stessi e con gli altri.
Per comunicare all’esterno occorre immedesimarsi nella vita interiore di un altro da noi, partecipando dei suoi pensieri e delle sue emozioni, attraverso il linguaggio delle parole, il linguaggio del silenzio e quello del corpo.
Abbiamo l’opportunità di scegliere e lo dobbiamo fare con consapevolezza responsabile.
Le parole sono importanti, non le si può dispensare con superficialità, lasciano il segno in chi le pronuncia (perché lo definiscono in quel momento) e nel destinatario, per il quale quelle parole possono essere una dolce carezza o una pugnalata al cuore; e non sottovalutiamo neppure il linguaggio del corpo che quelle parole accompagna (un gesto, uno sguardo, un sorriso, una lacrima, un abbraccio, un pugno chiuso…): che sia in sintonia e non in contraddizione con esse, per scongiurare che la comunicazione ne sia del tutto compromessa.
Nel dubbio, meglio un silenzio discreto ed eloquente piuttosto che una parola inopportuna.
Tutto questo presumendo l’ascolto come parte imprescindibile di una comunicazione efficace: ascolto indulgente e scevro da ogni atteggiamento giudicante verso di noi e verso gli altri.
Serve molto tempo per educarsi all’ascolto, ci vuole concentrazione e silenzio per acquietare la confusione che arriva dai bombardamenti acustici del mondo e il chiasso dei nostri continui pensieri, desideri, inquietudini… Il silenzio non è vuoto, bensì vita: non può esserci comunicazione autentica senza la presenza di una solitudine interiore, consapevole e all’interno del mondo, non parallela a esso.
Esercizio: Alla fine della lettura di ogni racconto, prima di proseguire con il successivo, fermiamoci a riflettere, ad ascoltare noi stessi, e annotiamo su un taccuino le sensazioni che ci ha suscitato (compassione, rabbia, desolazione, dubbio, felicità nello scoprire di vivere un amore sereno, letizia nell’essere liberi dal vincolo d’amore…)
Dopodiché, anche se non siamo sicuri di aver colto tutto, proviamo a pensare se riconosciamo nella nostra vita situazioni anche lontanamente simili a quelle descritte e raccontiamo l’accaduto in tutti i suoi dettagli (persone, ambiente, parole, toni, gesti, atteggiamenti…) e chiediamoci:
– quale è stato il mio contributo alla vicenda?
– perché ho agito e reagito in quel modo?
– cosa avrei dovuto o potuto fare per evitare che accadesse?
– cosa ho fatto, invece, per favorire la soluzione del problema?
– come è stata la comunicazione in quel frangente?
– se avessi comunicato meglio, sarebbe cambiato qualcosa?
– come avrei potuto comunicare meglio?
Eventualmente, se dovessimo ritrovarci oggi in quella circostanza, proviamo a capire in che modo possiamo intervenire per affrontare e risolvere la questione, ponendoci le stesse domande, senza vergognarci di chiedere aiuto all’occorrenza.

 

(Raymond Carver, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore, Einaudi, Torino 2015)

 

– Post pubblicato nel blog di Accademia della Felicità il 22 aprile 2016 –

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